Non c’è la crescita. Lavoro, debito, e fisco: check up sull’economia italiana

Padoan: il Pil aumenta meno velocemente del previsto. Renzi: ma ci sono i segnali per un grande salto

C’è poco da fare: come ammette lo stesso ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, «l’economia italiana sta crescendo non così velocemente come vorremmo. Le previsioni di crescita saranno riviste al ribasso anche nei dati che il governo sta per rilasciare nell’aggiornamento al Def». Ecco i fronti aperti per l’economia italiana.

 

DEBITO PUBBLICO

Il passivo sale. I tassi ai minimi limitano i danni

Il governo sperava che quest’anno il debito pubblico dell’Italia scendesse, si intende in rapporto al prodotto interno lordo (in cifra assoluta aumenta sempre, finché il bilancio dello Stato è in deficit). Sarebbe stata solo un’inezia, dal 132,7% al 132,4%, eppure un traguardo simbolico, per dare fiducia agli investitori internazionali. Già da mesi era in dubbio che si riuscisse a raggiungerlo. A quello scopo, si ipotizzava uno sforzo attraverso privatizzazioni concepite più per fare cassa (Ferrovie, Poste) che per un razionale progetto; i tempi però si sono allungati.

 

La causa dell’insuccesso non starà nella cifra del debito – i conti dello Stato vanno secondo le previsioni – ma nella cifra del Pil in termini nominali. Questa sarà più bassa sia per la poca crescita reale sia per la bassa inflazione, che certo non dipende dal governo. I mercati finanziari lo prevedono da tempo, e non si scorgono conseguenze; tanto è vero che il Tesoro continua a preparare la novità di una emissione di Btp cinquantennali. L’attenzione ai debiti pubblici è calata non soltanto a causa degli interventi di acquisto della Bce ma anche in prospettiva, perché si prevede che anche dopo i tassi di interesse non risaliranno di molto.

 

CRESCITA
Più investimenti per il rilancio? È un rischio

Guardando a tutti i Paesi avanzati, in questo momento la ricetta per una crescita forte non sembra possederla nessuno. Matteo Renzi ha sbagliato a vantare di poterci riuscire lui. L’Italia soffre in forma più grave di una malattia che è molto diffusa; ne ha avvertito i sintomi per prima in Europa. Nel 2001 Silvio Berlusconi vinse le elezioni promettendo «un nuovo miracolo economico» proprio perché la crescita mancava (e avevamo ancora la lira). Provò anche lui a violare le regole di bilancio europee, senza grandi risultati. Il troppo debito ci rese più vulnerabili degli altri alle due crisi successive, finanziaria mondiale e dell’area euro. Sommando tutto, per tornare al livello di benessere del 2001 si dovrà attendere forse il 2021.

Siamo impantanati in tre problemi concentrici: l’inefficienza del «sistema Italia», l’inadeguatezza del «Patto di stabilità» dell’area euro, la bassa crescita planetaria. Le idee nel mondo stanno mutando in fretta, si torna a parlare di investimenti pubblici per promuovere la crescita; ieri il Fondo monetario ha lodato il Canada che così fa. Ma il nostro Stato non sa spendere bene: sfidare il rigorismo tedesco non si può senza prima mettere ordine in casa nostra.

 

LAVORO
Il Jobs Act va. Ma i nuovi posti ora rallentano

Gli ultimi dati Istat sul lavoro sono buoni; non abbastanza per ridare fiducia. Circa metà dei 440.000 nuovi occupati degli ultimi 12 mesi sono giovani. Ma le dimensioni del problema sono enormi, e per chi termina gli studi la ricerca di un impiego resta ardua. Stia tranquillo il Movimento 5 stelle: il nostro giornale riporta con esattezza i numeri, non nasconde nulla. E’ innegabile che il Jobs Act abbia dato effetti positivi, pur se l’aumento dei contratti a tempo indeterminato è rallentato al diminuire degli incentivi. È un aumento modesto, ma con una crescita dell’economia tanto ridotta era vano aspettarsi di più.

Smentita è casomai l’attesa ideologica dei neoliberisti secondo cui una maggiore «flessibilità del lavoro» avrebbe avuto, da sola, effetti miracolosi sulla crescita dell’economia. Smentita è anche l’ideologia opposta secondo cui l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti avrebbe avuto effetti disastrosi. Piuttosto c’è da domandarsi se data la bassa crescita al governo sia mancato il coraggio di puntare fino in fondo sul «contratto di inserimento», dando in parallelo una stretta sulle forme meno tutelate di lavoro precario, sui «voucher», sulle finte partite Iva.

 

FISCO
Tasse in calo. Però slitta il taglio Irpef

Ridurre le tasse resta l’obiettivo centrale proclamato dal governo Renzi, a dispetto della sinistra Pd che non gradisce. Dovrebbe concretizzarsi quest’anno in un calo della pressione fiscale di 0,7 punti. Ma nei mesi scorsi si sono affastellate promesse per l’anno prossimo che non potranno essere mantenute. In primavera lo stesso presidente del Consiglio aveva ipotizzato di anticipare l’intervento sull’Irpef in programma per il 2018.

Non sarà così: resta il calendario precedente, per cui nel 2017 si ridurranno le tasse sulle imprese (aliquota Ires dal 27,5% al 24%). Anche rinunciandovi, questi 3 miliardi non sarebbero stati sufficienti per uno sgravio Irpef capace di dare un sollievo sensibile. È un vecchio interrogativo se sia più utile per la crescita detassare le imprese o detassare le famiglie. I modelli econometrici del Tesoro dicono che a parità di risorse è forse un poco più efficace dare precedenza ai redditi personali; Renzi aveva accennato che oggi «anche gli imprenditori mi dicono che è urgente mettere più soldi nelle mani delle famiglie». Tuttavia c’è una spinta internazionale a ridurre l’imposta societaria di cui occorre tenere conto. Si darà così un impulso agli investimenti? Chissà.

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