La It bag manda in crisi i dinosauri della moda

Se chiedessimo anche alle fashoniste più esperte il nome del loro vestito preferito, quello che sfoggiano solo agli appuntamenti piu speciali e per il quale hanno messo da parte almeno un paio di buste paga, dubito che sarebbero in grado di rispondere. Eppure, tutti, anche chi non appartiene ai circuiti fashion, sa benissimo che Kelly, Birkin, Paddington, Peekaboo, PS1, ecc. sono famosissimi nomi di borse per le quali fashioniste e non decidono di spendere una fortuna, considerandole delle vere e proprie investment pieces. Certo, bisogna fare delle distinzioni. Hermes e Chanel, per esempio, hanno creato delle istituzioni, borse che sono in cima a chilometriche liste di attesa, per le quali si sono persino costruiti dei poli produttivi dedicati e che ormai partecipano alle aste di società del calibro di Christie’s.

Un periodo di riflessione  

Altri brand, invece, hanno cavalcato l’onda della cosidetta IT Bag, cioé la borsa che diventa uno status symbol per tre o quattro anni e che viene prodotta in tutte le possibili varianti di colori e materiali fino a che non viene sostituita dalla It Bag successiva. Brand come Proenza Schouler, ed anche per certi versi Alexander Wang, devono proprio a questo il fenomeno il loro successo. Ma se l’It Bag (dall’inglese It, pronome impersonale di terza persona, che indica quello che in Italiano chiameremmo, molto più bruttamente, «la borsa per antonomasia») ha caratterizzato gli anni 1990 e 2000, oggi il fenomeno sembra vivere un periodo di riflessione, e le cause sono molteplici.

Un mercato meno rapido  

Rispetto all’abbigliamento, il mercato delle borse tende ad essere meno veloce, e non ci si aspetta nuovi prodotti ogni mese come invece accade nel Prêt-à-porter. Le stesse aziende del fast fashion, campioni del principio di consegnare nuovi prodotti ogni due settimane, seguono un calendario molto più rilassato quando si tratta di accessori. Ed è esattamente per lo stesso motivo che non esiste, almeno per ora, uno Zara o H&M delle borse. In questo settore, inoltre, la varietà è di gran lunga inferiore rispetto all’abbigliamento: una volta che si è investito in un certo modello di borsa, lo si puo’ utilizzare, variandolo appena, per varie stagioni. Nell’abbigliamento, invece, creare un cartamodello di successo che possa essere replicato di stagione in stagione e’ molto piu difficile: il wrap dress di Diane Von Furstenberg è una delle poche eccezioni.

I grandi marchi  

Questa maggior stabilità della pelletteria permette di minimizzare le rimanenze di magazzino (oltre al fatto che non si deve gestire la programmazione di taglie diverse) e quindi di conseguire margini piu’ alti rispetto ad altre categorie merceologiche. L’esplosione dell’e-commerce, inoltre, ha favorito lo sviluppo degli accessori a svantaggio dell’abbigliamento: e’ molto piu facile comprare una borsa online, piuttosto che un pantalone, non dovendo preoccuparsi della vestibilità e della taglia. Ne è conseguito che, come da manuale di microeconomia, gli alti profitti e le basse barriere all’entrata hanno attratto un elevatissimo numero di concorrenti. Anche brand tradizionalmente più noti per l’abbigliamento (si pensi a Giorgio Armani), hanno investito ingenti risorse nel cercare di ritagliarsi una fetta di mercato nella pelletteria, con risultati non sempre felici. Ne è risultata un’invasione di borse sul mercato, ed una crescente difficoltà anche per i brands più affermati a trovare la loro “It Bag” e, soprattutto, a mantenere il primato per più di una stagione o due.

I millennials  

A rendere le cose più complesse, ci hanno pensato come al solito i millennials: la loro allergia all’omologazione ed il tentativo di esprimere la propria unicità non si sposano bene con l’idea di comprare una borsa che per definizione si chiama “it”, cioè un pronome generico, e che è facile trovare nel guardaroba di migliaia di altre fashioniste. Piuttosto che la It Bag, le millennials cercano di scovare la borsa sconosciuta, quella che forse potremmo chiamare la I Bag, sulla quale costruire uno stile il più possibile personalizzato e costruire la propria individualità, da sfoggiare poi rigorosamente su Instagram e Pinterest.

Il total look  

Il passo successivo è spostare il focus dal prodotto unico al concetto di total look. I brands di oggi (e del futuro almeno piu’ immediato) stanno capendo che non si possono piu’ permettere di favorire una categoria rispetto all’altra. Non conta più lanciare la borsa del momento, serve piuttosto essere in grado di creare uno stile unico in cui abbigliamento, pelletteria, scarpe e presto accessori High-Tech contribuiscono allo stesso modo, democraticamente. E se è normale sfondare la prima porta dell’Olimpo della moda grazie ad un prodotto specifico, e molto piu difficile rimanerci se non si riesce a replicare lo stesso successo nelle altre categorie merceologiche. Mansur Gavriel, forse il brand che in modo piu’ emblematico sta impersonando questo trend nel mercato statunitense, sembra avere un futuro interessante di fronte a se’, anche se gli ostacoli non mancano. Quanto ci vorra’ agli altri dinosauri della moda per colmare il divario?

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