Tecnologia, le cinque vittime del 2016

Da Vine al jack audio, passando per Pebble e il Project Ara di Google, ecco cosa non vedremo e utilizzeremo più

Come ogni anno il vortice di oggetti e tecnologie innovative che arrivano sugli scaffali o vengono annunciate dalle principali società di settore lasciano sul campo delle vittime. Cioè altri oggetti e tecnologie che, per scarso interesse, costi impossibili o altre variabili, non hanno convinto i consumatori all’acquisto oppure gli investitori a estendere loro il supporto.

Il MIT Technology Review, magazine bimestrale dedicato all’innovazione del Massachusetts Insitute of Technology (uno dei primissimi poli universitari del mondo per il campo hi tech), ha messo in fila le cinque vittime del 2016, spaziando tra applicazioni, tecnologie, progetti a lunga scadenza, innovazioni e dispositivi.

1) Il jack per le cuffie – Forse la più illustre scomparsa dell’anno appena trascorso. La scelta di Apple di eliminarlo sul nuovo iPhone 7 è stata sufficiente per decretare la sua fine, anche perché a quanto filtra pare che pure Samsung sia propensa a farne a meno per il suo futuro top di gamma. La diffusione dell’audio wireless sta facendo breccia nelle menti dei produttori (sensibili a nuove entrate per cuffie extra, tipo i 179 euro per gli auricolari AirPods). L’obiettivo è trasformare l’esperienza di ascolto standard, e se finora sono ancora poche gli utenti che hanno rinunciato al jack audio da 3,5 mm, in futuro ci sarà sempre meno scelta, anche perché quando la prima mossa è della Mela, le possibilità di riuscita sono sempre molto alte.

2) Project Ara – Sembrava ieri che Google entrava in pompa magna nel mondo degli smartphone, decisa a sviluppare un hardware ad hoc per i milioni di appassionati Android. L’attesa si impennò davanti ai progetti esposti dall’azienda di Mountain View, pronta a creare il primo telefono modulare: come un giocattolo smontabile, chiunque avrebbe di lì a poco potuto scegliere come legare processore, batteria, cover e tutte le altri componenti hardware di un telefono personalizzabile grazie a un hardware intercambiabile. Lo scorso settembre è arrivata invece la conferma allo stop delle operazioni: Google non intende proseguire perché non ha più interesse a sviluppare un hardware in casa.

3) Vine – La parabole di Vine è sintomatica di quale sia la velocità di crociera del settore tecnologico. L’applicazione per realizzare brevi video divenne popolare grazie a Twitter (che l’acquistò nel 2012, quando era ancora una piccola startup) e grazie ai video di sei secondi trasmessi in loop, formato ideale per rimarcare brevi atti da ricordare (dallo sport alle gag comiche). Un precursore soppiantato dai social più popolari, in particolare Instagram, Snapchat e Facebook, cui si deve pure il ritorno in auge delle GIF. Dati alla mano, il problema di Vine è che nel 2016 è rimasto soltanto l’1% degli utenti più attivi nel postare le brevi clip, con la stragrande maggioranza spostatasi verso altre piattaforme.

4) Pebble – Vale il concetto espresso sopra, moltiplicandolo al quadrato. Perché di Pebble si iniziò a sentir parlare per le vagonate di dollari ottenuti su Kickstarter (un totale di oltre 43 milioni per tre campagne). Perché poi divenne il riferimento degli smartwatch della prima ora, quando concorrenti illustri come i primi modelli firmati LG, Samsung e Motorola faticavano a farsi apprezzare causa formati quadrati e funzioni limitate. Poi invece nell’ultimo anno c’è stato un tracollo, tra licenziamenti e l’acquisizione da parte di Fitbit, che ha messo la parola fine all’avventura di Pebble.

5) Google Fiber – Non proprio un anno indimenticabile per Big G, costretta alla ritirata anche per il progetto di banda larga, che resta peraltro attivo in alcune città degli Usa come Atlanta, San Antonio, Salt Lake City, Austin, Kansas City, Nashville e altri centri della costa Est. L’infrastruttura di rete si è rivelata essere troppo costosa anche per un tale gigante, interessata ora alle tecnologie wireless che richiedono minor investimenti. Eppure l’azione di Alphabet non è stata del tutto inutile, poiché come ricorda lo stesso magazine l’accelerata di Big G ha spinto i concorrenti a investire per offrire un servizio veloce e affidabile per gli utenti statunitensi.

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